mercoledì 24 gennaio 2007

DUE O TRE COSE VORREI DIRE A D'ALEMA SUL PARTITO DEMOCRATICO di Pasqualina Napoletano


"L'Unità" 23 gennaio 2007


Alcuni argomenti del discorso di Massimo D'Alema riferiti alla costruzione del partito democratico in occasione della terza assemblea dei segretari di sezione hanno suscitato in me grandi perplessità. Un discorso peraltro ampiamente condivisibile soprattutto nella parte della politica estera e dell'azione del governo. È bene quindi essere espliciti sui punti del dissenso, poiché questo non può che fare bene al nostro dibattito interno.

Riassumo i punti controversi in quattro questioni. La prima. D'Alema ha sostenuto che noi Ds da soli non bastiamo, non siamo sufficienti. Questo è vero, tanto che ci siamo adoperati fin dal '96 nella costruzione di una coalizione che sconfisse Berlusconi e che si avviava a divenire un soggetto politico, ma quel processo si interruppe.

Non occorrono molti argomenti per dimostrare la differenza tra forze che si coalizzano o meglio si federano e forze che si fondono in un unico partito politico. La scelta del partito democratico è appunto la seconda ed esso, al di là delle intenzioni, riguarda quasi esclusivamente Ds e Margherita, quindi una parte, non solo dell'attuale Unione, ma anche dell'Ulivo che nel '96 dette vita alla coalizione. Un'operazione di aggregazione parziale che seppure avrà successo elettorale non rappresenterà mai l'intera coalizione, con il rischio di approfondire le divaricazioni che già oggi non mancano all'interno dell'Unione. Il processo di formazione del partito mette poi Ds e Margherita di fronte ad un conflitto continuo per la supremazia politico-culturale ed anche di potere ed è proprio da qui il carattere asfittico dell'operazione con il rischio di logoramento delle stesse forze che ne sono protagoniste.
Il secondo argomento riguarda l'Europa. Dice il compagno D'Alema che in Europa il progetto dell'Ulivo è visto con simpatia ed incoraggiato da tutti i leader europei.

È vero, per gli europei l'Ulivo significa la sconfitta del governo Berlusconi, la nascita di un governo progressista e di sinistra, una nuova politica per l'Italia e per l'Europa. Quanto al partito democratico, vi sono state in Europa ampie e ripetute assicurazioni da parte dei nostri dirigenti che esso non può che collocarsi nel socialismo europeo, anche per questo al congresso di Porto, con l'accordo della minoranza Ds, si è votato un emendamento allo statuto che allarga a forze democratiche e progressiste il partito del socialismo europeo.
Ciò che i nostri dirigenti tendono ad omettere è che, anche dopo Porto, si sono moltiplicate le dichiarazioni dei dirigenti della Margherita che ribadiscono che mai e poi mai il futuro partito democratico aderirà al partito e al gruppo del socialismo europeo. Per tutta risposta, Piero Fassino ribadisce che questa questione sarà dirimente. E allora delle due l'una. Se essa è realmente dirimente non si capisce perché si continui, senza risolverla, a procedere a tappe forzate verso il partito democratico; se essa non lo è, altri sbocchi sembrano essere possibili. Metto in guardia dal ripetere l'esperienza di una lista unica alle europee che poi produce, come avviene oggi, la divisione degli eletti in due gruppi diversi. Innanzitutto perché l'Europa ha bisogno nel suo progresso politico e democratico di veri partiti sovranazionali ed un partito sovranazionale è tale se riceve una cessione di sovranità. Se l'attuale situazione bicefala dovesse protrarsi, a quale partito europeo il partito democratico cederà sovranità? Questo non è un dettaglio, cozzerebbe con quell'europeismo che è una delle caratterizzazioni del governo e dei partiti del centrosinistra, anche rispetto all'esperienza del governo Berlusconi.

La stessa esperienza della lista unica avvenuta nelle europee del 2004 andrebbe valutata criticamente. Essa infatti non solo ha prodotto come conseguenza che gli eletti sono collocati in due gruppi diversi, indebolendo così la presenza in entrambi e soprattutto nel gruppo socialista europeo, ma ha prodotto una sorda conflittualità che serpeggia nelle reciproche relazioni. Infatti, ai parlamentari, prevalentemente Ds, che dall'inizio della legislatura si sono dimessi per svariati motivi, sono per lo più subentrati esponenti della Margherita che, ovviamente, non sono entrati nel gruppo socialista ma hanno raggiunto i loro compagni di partito del gruppo liberale. Insomma, non è il migliore dei modi per contare nel Parlamento Europeo, le conseguenze si sono già viste per il fatto che i democratici di sinistra italiani non ricoprono attualmente alcuna carica istituzionale di rilievo nel Parlamento Europeo.

Il terzo argomento l'ho trovato particolarmente originale e perfino autoironico. D'Alema ha detto che gli capita spesso, girando il mondo, di incontrare vecchi amici che un tempo si vedevano prevalentemente a Mosca in occasione del festival della gioventù comunista e che oggi fanno parte di partiti i cui nomi non hanno nulla a che fare con il socialismo e con la sinistra, ma ciò non toglie che loro lo siano rimasti. Intanto c'è da chiedersi di quale sinistra? Visto che D'Alema, mi pare di aver capito, si riferisce ad esponenti di partiti unici ed autoritari dell'Est e di altri continenti con una chiara impronta filosovietica che dopo la caduta del Muro si sono riciclati in formazioni diverse o ne hanno fondate di nuove. Capisco che la foga della polemica con la sinistra interna è foriera di originali elaborazioni, tant'è che questo ragionamento lo porta ad un nuovo concetto, quello di «socialismo mimetico» o di socialismo come «diaspora», quasi che esso in Italia non possa che vivere, come in alcuni paesi dell'est, se non in una forma mascherata.

La domanda giusta cui ancora oggi stentiamo a dare risposta è, invece, a mio avviso un'altra e cioè come mai in Italia, sia prima che dopo il 1989, non sia stato possibile l'unità delle forze di sinistra e far crescere un partito esplicitamente socialdemocratico, laico e di sinistra della forza degli altri partiti europei? Mi si risponde: «ma è il partito democratico, baby». E no, non credo dai presupposti che vedo, a cominciare della laicità e dalla critica al capitalismo ed alla modernità, che questo sia vero.

La stessa questione cattolica così come viene affrontata nel partito democratico non mi convince. È come se esistesse una cultura politica cattolica capace di caratterizzarsi in quanto tale. Non è così, almeno dalla fine della Dc se vogliamo considerarla come il luogo dell'unità politica dei cattolici, cosa peraltro non vera già allora. Oggi esistono cattolici di sinistra, progressisti, conservatori, reazionari e la stessa questione della laicità proprio per questo è declinata diversamente dagli stessi. Invece di costruire quello che è stato definito un «compromesso storico bonsai», sarebbe più interessante riferirsi all'esperienza del Ps francese in cui persone come Delors, cattolico, non hanno alcuna difficoltà a ritrovarsi nei valori e nella politica socialista.

L'ultima notazione voglio farla sui democratici americani. Dice D'Alema che molti di loro si sono battuti contro la guerra di Bush molto più di quanto non abbiano fatto molti socialisti europei. È come dire: «Vedete, quelli non si chiamano socialisti, non si definiscono di sinistra ma alla prova dei fatti lo sono più di tanti altri». Intanto l'esempio portato non mi pare dei più felici, infatti mi pare di ricordare che solo una esponente democratica del congresso, donna e nera, osò votare contro la spedizione di guerra in Iraq. I democratici, per parte loro, si sperticarono nel sostenere la strategia di Bush, tanto che furono portati ad esempio da Berlusconi. Oggi, certo, le cose sono cambiate alla luce delle oltre tremila vittime americane e dalla constatazione che la guerra è persa. Quanto all'Europa, è vero che un particolare partito, un paese, si è distinto nell'essere il capofila della strategia di Bush, si tratta del Labour di Tony Blair, seguito dai polacchi ed altri paesi dell'Est. La grandissima parte dell'Europa e della sinistra europea ha contrastato quell'intervento, per non parlare del grande movimento che si produsse in Europa, che fu definito la seconda potenza mondiale.
Ma, a proposito, non è Blair uno di quei leader europei tanto osannati per essere andati oltre il socialismo classico? Non sono lui ed i suoi think tank ad essere così valorizzati dalla Fondazione Italianieuropei? A proposito di Iraq vale la pena ricordare che anche in casa nostra le cose non sono state lisce e che far assumere ai Ds la posizione del «ritiro» costò non poca fatica alla minoranza intera, che dovette ricorrere a momenti di vera drammatizzazione della questione al congresso di Roma. Questione oggi condivisa da tutti e che ha qualificato i primi atti di governo di Romano Prodi. Tornando a D'Alema, perché contrapporre i socialisti europei e democratici americani come se ci fosse bisogno del partito democratico in Italia come mediatore in questa relazione? Essa esiste da tempo e progredisce, lo ha dimostrato anche la presenza di Howard Dean al congresso di Porto.
Il socialismo certo non è un'ideologia e non va vissuto come tale, esso però, nonostante noi, esiste come aspirazione di grande parte della popolazione europea. Esso continua ad essere un processo che produce critica, emancipazione, uguaglianza. È vero che deve costantemente rinnovarsi, tanto più oggi dove i processi economici, sociali, culturali precedono di gran lunga la politica e le istituzioni. Mi incoraggia il fatto che sia il recente congresso di Porto che le elaborazioni di alcuni partiti socialisti europei pongano l'accento sul recupero pieno della dimensione sociale e sul ruolo dello stato, delle istituzioni europee, sulla critica alla modernità così come si presenta, sulla questione ambientale, sulla libertà, sui diritti delle persone, sulla laicità delle istituzioni.

Se tutto questo vuol dire andare «oltre» allora sì, bene, andiamoci, ma per fare questo non è necessario né dismettere la nostra identità di sinistra né mimetizzarci in formazioni dal profilo incerto. Ho il timore, per come si sta sviluppando il dibattito, che per alcuni andare «oltre» il socialismo voglia dire, invece, andare da «tutt'altra parte».
Quest'ultima notazione, evidentemente, non è riferita al discorso del presidente D'Alema, che notoriamente non si sottrae al confronto, aperto e anche aspro, e che ha avuto il coraggio di affermare pubblicamente la necessità, per i Democratici di Sinistra, di superare la tradizione socialista europea, tanto più se si considera, come egli dice, che i Ds sono solo da poco entrati nella famiglia socialista.


Pasqualina Napoletano
(Vice-presidente del gruppo socialista
al Parlamento Europeo)

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